«A un buon olivicoltore il proprio olio costa già 13mila lire all’uscita dal frantoio e prima dell’imbottigliamento. Nei supermercati sono in vendita bottiglie di olio extravergine a molto meno della metà. Una frode? Certo una frode voluta dalle multinazionali e consentita da politici ignoranti e corrotti. Una frode che sottrae alla nostra agricoltura e alla nostra economia molti miliardi al giorno». Sono parole dette e scritte in ogni occasione possibile da Luigi Veronelli che, giovinotto rivoluzionario alla soglia dei 75 anni, sta conducendo la sua ennesima campagna, radicale, estremista com’è nel suo stile, per la qualità dei prodotti con i quali ci nutriamo, per la dignità di chi lavora la terra, per la qualità della vita, insomma, di tutti noi.
È Gino un vecchio bambino, incapace di non estremizzare il suo impegno nelle battaglie che conduce; maestro impareggiabile di tutti coloro che in Italia scrivono di cibo e di vino, s’è posto ora come obiettivo primo l’olio e, come un forsennato, gira rabbioso l’Italia non tanto per presentare la sua ultima opera (Gli oli di Veronelli, Veronelli Editore, 33 mila lire), quanto per suonar la carica, risvegliar le coscienze delle centinaia di migliaia di olivicoltori scorati e affranti dall’inutilità del loro impegno, reso vano da un mercato che, com’è ovvio, risponde prima a regole mercantili che di qualità e di conseguenza paga le olive in misura mostruosamente inferiore al loro valore. È vero che l’olio autentico, sincero, onesto - che tale è attraverso tutti i passaggi della filiera, dalla terra al banco del negozio - “non può non costare” meno di… non è vero - almeno sino a prova contraria scientificamente dimostrata - che ci sia “frode” da parte delle multinazionali, se queste agiscono nel rispetto delle leggi nazionali e comunitarie. Idioti, incompetenti, menefreghisti semmai sono, sono stati, i legislatori.
Ovvio, anche, che il nostro Paese, per elezione di gran lungo il produttore delle migliori olive del mondo, paghi il prezzo più alto di questa situazione. Di qui l’esigenza di rivedere radicalmente leggi che permettono, semplificazione massima, di far credere olio extravergine italiano un olio quale non si conosce l’origine geografica né il tipo di olive da cui deriva, non se ne conosce il processo produttivo, non si distingue chi l’abbia prodotto da chi l’abbia imbottigliato e quanto… Chiaro? E, aggiungo io, in questo forse addirittura più radicale di Veronelli, non si ha alcuna garanzia sull’effettivo luogo d’origine geografica, frazione, comune, provincia… cosicché può capitare (e capita, capita accidenti) che - faccio un esempio generico senz’alcun riferimento alla realtà - il produttore gardesano d’una certa rinomanza imbottigli sotto la stessa etichetta “garantita” anche oli, magari pure buoni, prodotti con origine, chessò, con olive umbre o toscane, o viceversa.
Va detto che, tutto sommato, nella confusione e nell’arbitrarietà che sono regola, questo può apparire peccato veniale; eppure, a certi prezzi, alti e altissimi, il consumatore ha diritto di essere protetto sino in fondo. Lo spazio per chi voglia far bene all’olio, agli olivicoltori, alla salute e all’economia degli italiani è dunque immenso; e tutti, ciascuno per la propria parte, possono contribuire, dai ristoratori ai consumatori, dai politici ai produttori.
È vero, anche, che si stanno moltiplicando le iniziative che vanno nella direzione giusta: degustazioni, lezioni per aspiranti assaggiatori, veri e propri concorsi per la valorizzazione dell’olio in cucina (primo fra tutto Qoco, gara internazionale per giovani cuochi, la cui seconda edizione s’è svolta poche settimane fa ad Andria, organizzata dall’Associazione Città dell’Olio). Il passo più importante, però, spetta ai nostri legislatori.
Per concludere una mia personale hit-parade degli oli che nell’anno ho degustato, non le primizie 2000 quindi, ma quelli in commercio (raccolta 99): al vertice, ancora e nettamente, il trico costituito dalla Fattoria Paradiso di Alex Nember di Raffa di Puegnago (Bs), il Trappìtu di Wolfango Jezek di Guarrato (Tp), l’unico ed esclusivo (non in vendita, purtroppo) olio che Fulvio Pierangelini usa nella sua grandissima cucina di San Vincenzo (Gr); e poi quello delle Peracciole di Alfonso Iaccarino a Sant’Agata sui due Golfi, l’Hyblon prodotto da Michele Costanza a Ferla (Sr), Liso e Pellegrino (stupendo mandorlato) di Andria e infine il sorprendente Planeta di Sambuca (Ag), che in verità (so di non far piacere alla famiglia) mi convince assai più del loro celebratissimo ma “artefatto” chardonnay.
È Gino un vecchio bambino, incapace di non estremizzare il suo impegno nelle battaglie che conduce; maestro impareggiabile di tutti coloro che in Italia scrivono di cibo e di vino, s’è posto ora come obiettivo primo l’olio e, come un forsennato, gira rabbioso l’Italia non tanto per presentare la sua ultima opera (Gli oli di Veronelli, Veronelli Editore, 33 mila lire), quanto per suonar la carica, risvegliar le coscienze delle centinaia di migliaia di olivicoltori scorati e affranti dall’inutilità del loro impegno, reso vano da un mercato che, com’è ovvio, risponde prima a regole mercantili che di qualità e di conseguenza paga le olive in misura mostruosamente inferiore al loro valore. È vero che l’olio autentico, sincero, onesto - che tale è attraverso tutti i passaggi della filiera, dalla terra al banco del negozio - “non può non costare” meno di… non è vero - almeno sino a prova contraria scientificamente dimostrata - che ci sia “frode” da parte delle multinazionali, se queste agiscono nel rispetto delle leggi nazionali e comunitarie. Idioti, incompetenti, menefreghisti semmai sono, sono stati, i legislatori.
Ovvio, anche, che il nostro Paese, per elezione di gran lungo il produttore delle migliori olive del mondo, paghi il prezzo più alto di questa situazione. Di qui l’esigenza di rivedere radicalmente leggi che permettono, semplificazione massima, di far credere olio extravergine italiano un olio quale non si conosce l’origine geografica né il tipo di olive da cui deriva, non se ne conosce il processo produttivo, non si distingue chi l’abbia prodotto da chi l’abbia imbottigliato e quanto… Chiaro? E, aggiungo io, in questo forse addirittura più radicale di Veronelli, non si ha alcuna garanzia sull’effettivo luogo d’origine geografica, frazione, comune, provincia… cosicché può capitare (e capita, capita accidenti) che - faccio un esempio generico senz’alcun riferimento alla realtà - il produttore gardesano d’una certa rinomanza imbottigli sotto la stessa etichetta “garantita” anche oli, magari pure buoni, prodotti con origine, chessò, con olive umbre o toscane, o viceversa.
Va detto che, tutto sommato, nella confusione e nell’arbitrarietà che sono regola, questo può apparire peccato veniale; eppure, a certi prezzi, alti e altissimi, il consumatore ha diritto di essere protetto sino in fondo. Lo spazio per chi voglia far bene all’olio, agli olivicoltori, alla salute e all’economia degli italiani è dunque immenso; e tutti, ciascuno per la propria parte, possono contribuire, dai ristoratori ai consumatori, dai politici ai produttori.
È vero, anche, che si stanno moltiplicando le iniziative che vanno nella direzione giusta: degustazioni, lezioni per aspiranti assaggiatori, veri e propri concorsi per la valorizzazione dell’olio in cucina (primo fra tutto Qoco, gara internazionale per giovani cuochi, la cui seconda edizione s’è svolta poche settimane fa ad Andria, organizzata dall’Associazione Città dell’Olio). Il passo più importante, però, spetta ai nostri legislatori.
Per concludere una mia personale hit-parade degli oli che nell’anno ho degustato, non le primizie 2000 quindi, ma quelli in commercio (raccolta 99): al vertice, ancora e nettamente, il trico costituito dalla Fattoria Paradiso di Alex Nember di Raffa di Puegnago (Bs), il Trappìtu di Wolfango Jezek di Guarrato (Tp), l’unico ed esclusivo (non in vendita, purtroppo) olio che Fulvio Pierangelini usa nella sua grandissima cucina di San Vincenzo (Gr); e poi quello delle Peracciole di Alfonso Iaccarino a Sant’Agata sui due Golfi, l’Hyblon prodotto da Michele Costanza a Ferla (Sr), Liso e Pellegrino (stupendo mandorlato) di Andria e infine il sorprendente Planeta di Sambuca (Ag), che in verità (so di non far piacere alla famiglia) mi convince assai più del loro celebratissimo ma “artefatto” chardonnay.