Edizioni Veronelli
October 2002
Perchè è importante definire il gusto dell’olio
Edizioni Veronelli n° 67, Nichi Stefi
Sono stato coinvolto nella nuova avventura di Luigi Veronelli quasi per caso. Ad una cena Roberto Scopo stava descrivendo il disciplinare che aveva redatto con tanta fatica da chiamarlo “la mia tesi di laurea”, e con il piglio di chi è certo di stare dalla parte del giusto cercava consensi.
Io ascoltavo, di olio so poco, ed ero curioso soprattutto per il fatto che Luigi Veronelli era estremamente attento ai commi e alle pandette che normalmente, da buon anarchico, disdegna.
Poi intervenne battendo il tasto del monocultivar, come esigenza essenziale per introdurre il tema dell’olio d’oliva.
Stupefatto mi chiesi, “Ma è lo stesso Veronelli che, nel vino, ha imprecato perché ognuno avesse il nome della propria terra, quel Veronelli che ha maledetto la mancanza d’identità data dalla pura denominazione di vitigno?”.
E poi lo sentii dire che non era in grado di esprimere giudizi sull’olio, di non poter utilizzare il suo naso e il suo palato; lo sentii affermare con solennità che la tracciabilità era tutto, che era importante che i dati apparissero in etichetta, che era fondamentale che la Metaponto Agrobios, per me questa parola significa semplicemente “la scienza”, certificasse il Dna del lotto unitario, altra parola tecnica che contribuiva ad aumentare il mio stupore.
Ero esterrefatto, il naso più naso era impotente, il palato più raffinato alzava bandiera bianca. Che ci stava a fare allora. Per controllare il prodotto e difendere il consumatore mi aspettavo Anna Bartolini che questo mestiere, quando vuole, lo sa fare bene.
Poi ho capito. Ho capito per uno scarto della memoria. Un po’ come Proust con la sua madeleine e con i baci della mamma.
Mi spiego.
Molto tempo fa, leggevo una ricetta classica per la preparazione del classico consommé. Era una ricetta complessa, prevedeva l’utilizzo di una serie di tagli di carni assolutamente preciso e di varie tipologie; c’era il vitello, il manzo, il maiale, la gallina. Poi le azioni per schiumare, sgrassare, chiarificare, illimpidire il brodo, erano, se ricordo bene, tredici, con tredici ingredienti diversi.
Decisi, con mia moglie, di dedicare un week-end alla preparazione di questo brodino. Non so se agimmo alla perfezione, quello che so è che ci impegnammo seriamente e con coscienziosità, il risultato fu ovviamente un brodo molto diverso da quello di mia nonna, pieno di occhielli di grasso e di sapori violenti; era un brodo uniforme, elegante, come nelle foto delle ricette dei grandi chef, aveva un profumo delicato e il sapore ricordava, seppur più equilibrato e armonico, il brodo di dado. Sì, il brodo di dado, e, ripensandoci anche l’aspetto era sostanzialmente lo stesso.
“Sa di dado!” disse mia moglie sincera e delusa. “Sì, ma però …” fu la mia risposta consolatoria che tentava di evidenziare le differenze, di arrampicarsi sugli specchi.
Oggi ho capito, so. Era elementare. Chi ha prodotto il dado ha tentato di imitare non certo il brodo grasso di mia nonna, ma il migliore consommé ristretto, e con qualche approssimazione ce l’aveva fatta.
Io, che non conoscevo il vero consommé, convivevo beatamente con il mio brodo di dado e non avevo il palato per riconoscerne le differenze che pure c’erano.
Ritorno a Veronelli e alla sua dichiarazione di non avere il palato e di volere oli monocultivar.
L’olio che le multinazionali ci hanno dato per anni è come il dado. Imita l’olio d’oliva medio, costruisce un sapore di fondo lo identifica come olio d’oliva e su questo costruisce le varie identità. Un po’ di foglia lo fa diventare verde per essere toscano, un po’ di piccante lo rende umbro, una nota gentile lo rende ligure e così via. Alla base il dado, ossia l’olio rettificato. Trasparente, inodore, limpido e pulito.
Diego Dalla Palma, grande truccatore e mio grande amico, un giorno mi disse. Se devi presentare una collezione, scegli modelle con facce anonime, trasparenti, ben proporzionate, ma inutili, sei tu che ci disegni sopra una personalità che è quella dell’abito. Se ti capita invece quella che la personalità l’ha lei, allora tu devi essere un artista e vengono fuori i capolavori, ma ovviamente sono rari e molto difficili. Come il brodo, come l’olio.
Era tutto chiaro.
Il vecchio Veronelli, mai tanto valore in questo aggettivo, aveva l’umiltà di dire: sono stato preso in giro, io non so quale sia il sapore dell’olio, non riconosco le varie identità, perché i parametri su cui ci siamo basati sono stati costruiti. Non ci sono. Io oggi voglio conoscere, e voglio partire dall’inizio, come col vino, cultivar per cultivar, oliveto per oliveto. Voglio distinguere, marcare le differenze.
È necessario ridisegnare la mappa.
Saranno poi i cuochi, gli chef, i produttori stessi a creare i loro blended, le loro cuvée, in altre parole i loro oli. Come è stato con il vino.
E tutta qui l’avventura in cui sono stato coinvolto. Ripercorrere la storia, come è stato con il vino, dai suoi inizi, come già m’era capitato di affiancare Veronelli trent’anni fa che già stava camminando da solo.
Fondiamo il gusto. Definiamo le caratteristiche del moraiolo, della taggiasca, del leccino. E soprattutto tentiamo di capire se i nostri oliveti sono monocultivar o se convivono più specie. Solo dopo cominceremo a riconoscere le differenze tra una zona ed un’altra, identificheremo le colline vocate, scopriremo i vantaggi e gli svantaggi delle tecniche di coltura e di raccolta.
Veronelli come Kant.
Diamo un taglio al passato, definiamo i criteri, proponiamo i valori. La fondazione del gusto: prolegomeni ad una estetica della degustazione dell’olio d’oliva.
Ci hanno venduto un marchio e noi credevamo che ci vendessero un prodotto. Hanno usato la tecnica degli stilisti. Con la differenza che la moda per sua definizione evolve, per cui ciò che si compra è effimero e sovrastrutturale. L’olio è alimento, è una costante, è perfino un elemento, insieme al vino, sacrale.
L’olio secondo Veronelli non è quindi un prodotto, ma un sistema che contribuirà a definire il senso dell’olio.
Io non escludo che ci siano persone che già sanno. Giancarlo Bini, a Suvereto (ristorante Ombrone), ha una carta degli oli che sembra una cattedrale gotica per la sua opulenta varietà e ricchezza, ed è persona sincera e sublime. Lui sa più di me e può anche costruire in altra maniera i suoi oli, anche Gaja ha usato la barrique in epoca non sospetta, ma anche Giancarlo Bini, e infatti l’ho trovato entusiasta, sa che bisogna dare un ordine al caos.
È stata una battaglia lunga quella del vino, ed è stata vinta. Non da Veronelli solo, ma lui ci ha messo del suo. Sarà una battaglia durissima quella sull’olio perché di fronte non ci sono milioni di vignaioli spauriti, ma poche multinazionali ben organizzate.
Ma vale la pena lo stesso.
Io ascoltavo, di olio so poco, ed ero curioso soprattutto per il fatto che Luigi Veronelli era estremamente attento ai commi e alle pandette che normalmente, da buon anarchico, disdegna.
Poi intervenne battendo il tasto del monocultivar, come esigenza essenziale per introdurre il tema dell’olio d’oliva.
Stupefatto mi chiesi, “Ma è lo stesso Veronelli che, nel vino, ha imprecato perché ognuno avesse il nome della propria terra, quel Veronelli che ha maledetto la mancanza d’identità data dalla pura denominazione di vitigno?”.
E poi lo sentii dire che non era in grado di esprimere giudizi sull’olio, di non poter utilizzare il suo naso e il suo palato; lo sentii affermare con solennità che la tracciabilità era tutto, che era importante che i dati apparissero in etichetta, che era fondamentale che la Metaponto Agrobios, per me questa parola significa semplicemente “la scienza”, certificasse il Dna del lotto unitario, altra parola tecnica che contribuiva ad aumentare il mio stupore.
Ero esterrefatto, il naso più naso era impotente, il palato più raffinato alzava bandiera bianca. Che ci stava a fare allora. Per controllare il prodotto e difendere il consumatore mi aspettavo Anna Bartolini che questo mestiere, quando vuole, lo sa fare bene.
Poi ho capito. Ho capito per uno scarto della memoria. Un po’ come Proust con la sua madeleine e con i baci della mamma.
Mi spiego.
Molto tempo fa, leggevo una ricetta classica per la preparazione del classico consommé. Era una ricetta complessa, prevedeva l’utilizzo di una serie di tagli di carni assolutamente preciso e di varie tipologie; c’era il vitello, il manzo, il maiale, la gallina. Poi le azioni per schiumare, sgrassare, chiarificare, illimpidire il brodo, erano, se ricordo bene, tredici, con tredici ingredienti diversi.
Decisi, con mia moglie, di dedicare un week-end alla preparazione di questo brodino. Non so se agimmo alla perfezione, quello che so è che ci impegnammo seriamente e con coscienziosità, il risultato fu ovviamente un brodo molto diverso da quello di mia nonna, pieno di occhielli di grasso e di sapori violenti; era un brodo uniforme, elegante, come nelle foto delle ricette dei grandi chef, aveva un profumo delicato e il sapore ricordava, seppur più equilibrato e armonico, il brodo di dado. Sì, il brodo di dado, e, ripensandoci anche l’aspetto era sostanzialmente lo stesso.
“Sa di dado!” disse mia moglie sincera e delusa. “Sì, ma però …” fu la mia risposta consolatoria che tentava di evidenziare le differenze, di arrampicarsi sugli specchi.
Oggi ho capito, so. Era elementare. Chi ha prodotto il dado ha tentato di imitare non certo il brodo grasso di mia nonna, ma il migliore consommé ristretto, e con qualche approssimazione ce l’aveva fatta.
Io, che non conoscevo il vero consommé, convivevo beatamente con il mio brodo di dado e non avevo il palato per riconoscerne le differenze che pure c’erano.
Ritorno a Veronelli e alla sua dichiarazione di non avere il palato e di volere oli monocultivar.
L’olio che le multinazionali ci hanno dato per anni è come il dado. Imita l’olio d’oliva medio, costruisce un sapore di fondo lo identifica come olio d’oliva e su questo costruisce le varie identità. Un po’ di foglia lo fa diventare verde per essere toscano, un po’ di piccante lo rende umbro, una nota gentile lo rende ligure e così via. Alla base il dado, ossia l’olio rettificato. Trasparente, inodore, limpido e pulito.
Diego Dalla Palma, grande truccatore e mio grande amico, un giorno mi disse. Se devi presentare una collezione, scegli modelle con facce anonime, trasparenti, ben proporzionate, ma inutili, sei tu che ci disegni sopra una personalità che è quella dell’abito. Se ti capita invece quella che la personalità l’ha lei, allora tu devi essere un artista e vengono fuori i capolavori, ma ovviamente sono rari e molto difficili. Come il brodo, come l’olio.
Era tutto chiaro.
Il vecchio Veronelli, mai tanto valore in questo aggettivo, aveva l’umiltà di dire: sono stato preso in giro, io non so quale sia il sapore dell’olio, non riconosco le varie identità, perché i parametri su cui ci siamo basati sono stati costruiti. Non ci sono. Io oggi voglio conoscere, e voglio partire dall’inizio, come col vino, cultivar per cultivar, oliveto per oliveto. Voglio distinguere, marcare le differenze.
È necessario ridisegnare la mappa.
Saranno poi i cuochi, gli chef, i produttori stessi a creare i loro blended, le loro cuvée, in altre parole i loro oli. Come è stato con il vino.
E tutta qui l’avventura in cui sono stato coinvolto. Ripercorrere la storia, come è stato con il vino, dai suoi inizi, come già m’era capitato di affiancare Veronelli trent’anni fa che già stava camminando da solo.
Fondiamo il gusto. Definiamo le caratteristiche del moraiolo, della taggiasca, del leccino. E soprattutto tentiamo di capire se i nostri oliveti sono monocultivar o se convivono più specie. Solo dopo cominceremo a riconoscere le differenze tra una zona ed un’altra, identificheremo le colline vocate, scopriremo i vantaggi e gli svantaggi delle tecniche di coltura e di raccolta.
Veronelli come Kant.
Diamo un taglio al passato, definiamo i criteri, proponiamo i valori. La fondazione del gusto: prolegomeni ad una estetica della degustazione dell’olio d’oliva.
Ci hanno venduto un marchio e noi credevamo che ci vendessero un prodotto. Hanno usato la tecnica degli stilisti. Con la differenza che la moda per sua definizione evolve, per cui ciò che si compra è effimero e sovrastrutturale. L’olio è alimento, è una costante, è perfino un elemento, insieme al vino, sacrale.
L’olio secondo Veronelli non è quindi un prodotto, ma un sistema che contribuirà a definire il senso dell’olio.
Io non escludo che ci siano persone che già sanno. Giancarlo Bini, a Suvereto (ristorante Ombrone), ha una carta degli oli che sembra una cattedrale gotica per la sua opulenta varietà e ricchezza, ed è persona sincera e sublime. Lui sa più di me e può anche costruire in altra maniera i suoi oli, anche Gaja ha usato la barrique in epoca non sospetta, ma anche Giancarlo Bini, e infatti l’ho trovato entusiasta, sa che bisogna dare un ordine al caos.
È stata una battaglia lunga quella del vino, ed è stata vinta. Non da Veronelli solo, ma lui ci ha messo del suo. Sarà una battaglia durissima quella sull’olio perché di fronte non ci sono milioni di vignaioli spauriti, ma poche multinazionali ben organizzate.
Ma vale la pena lo stesso.