Edizioni Veronelli
July 2003
Le vie del successo per un extravergine di qualità.
Edizioni Veronelli n° 71, Cesare Pillon
Ignoravo del tutto l’esistenza di Seneghe, del Montiferru e del suo olio, quando l’anno scorso quell’olio l’ho assaggiato per la prima volta. Nonostante l’entusiasmo di chi me ne aveva parlato, confesso che nutrivo parecchia diffidenza, dovuta a poco felici esperienze con altri oli sardi. Se poi sono andato all’annuale convegno di Seneghe, è perché quell’assaggio mi aveva convinto: l’extravergine del Montiferru è davvero di alto lignaggio. Ma il problema comincia proprio qui, come ho spiegato nell’intervento che ho svolto a quella manifestazione: come mai, se l’olio è della qualità che il mio olfatto e il mio palato hanno avvertito, non ne avevo mai sentito parlare?
Sulle guide degli olii, epicentro dell’olivicoltura nell’Oristanese è considerata Cùglieri e di Seneghe non si fa neppure il nome. È vero che Seneghe e la Comunità montana del Montiferru sono minuziosamente descritte nella guida Le Città dell’olio edita dal Touring Club Italiano, però poi, nelle due pagine in cui questo libro elenca i frantoi
e gli imbottigliatori d’olio della Sardegna, non è segnalato neppure un marchio dell’Oristanese, che è sicuramente la più piccola zona olivicola dell’isola ma non è certo l’ultima per qualità.
L’olio di Seneghe, insomma, ha un grosso difetto: è assai meno conosciuto e apprezzato di quel che merita. Come mai? Manca di immagine, come dicono gli esperti di marketing.
A crearla potrebbe contribuire l’attribuzione della Dop, la Denominazione d’origine protetta, che la legherebbe più strettamente al territorio da cui scaturisce, e allo stesso tempo conferirebbe al territorio una maggiore visibilità. Sono molto stupito che nell’isola sia stata richiesta una sola denominazione: Sardegna.
Mi sembra troppo generica e, come sempre accade quando c’è da mettere insieme gli interessi contrastanti di varie zone, ci si mette più tempo a ottenerla. La Dop ha lo scopo di proteggere dalle contraffazioni e dalla concorrenza sleale i prodotti agroalimentari quando questi possiedono caratteristiche organolettiche di pregio che scaturiscono da una zona geografica di particolare elezione. Io credo che gli olivicoltori del Montiferru debbano far riconoscere in qualche modo la valenza della zona d’origine: il loro olio ha una personalità sua, ed è giusto che non venga confuso con gli altri, neppure con quelli degli altri territori sardi.
Luigi Veronelli ha lanciato la proposta delle De.Co.,
le denominazioni comunali per tutti i prodotti agroalimentari di pregio, i cosiddetti giacimenti gastronomici: denominazioni comunali che secondo lui, e credo abbia ragione, possono essere tutelate con maggior facilità e più inflessibile rigore grazie al controllo diretto che si può esercitare in loco.
Il Parlamento non ha ancora legiferato sulle De.Co., ma grazie alla Legge costituzionale n.3 del 18 ottobre 2001 e agli esempi di comuni importanti (per esempio Lecce e Castegnato che hanno deliberato ufficialmente sul tema e iniziato a certificare i propri giacimenti gastronomici) si è inaugurata un’opportunità che i seneghesi dovrebbero scandagliare con attenzione: se la nobiltà della loro zona d’origine fosse in qualche modo riconosciuta, il loro prodotto farebbe un passo avanti molto importante. C’è un episodio che spiega molte cose: la guida I ristoranti di Veronelli nell’edizione 2002 consigliava, a Oristano, un locale che utilizza un extravergine di Seneghe, ma lo segnalava come olio di Oristano. Nell’edizione 2003, poiché qualcuno aveva segnalato l’inesattezza, l’attribuzione a Oristano è scomparsa, ma non è stata sostituita da quella di
di Seneghe. Perché? Evidentemente perché il nome di quel comune non è abbastanza conosciuto. Il primo obiettivo che gli olivicoltori devono porsi, perciò, è che tutti i ristoranti di qualità della Sardegna utilizzino in cucina e servano in tavola l’olio di Seneghe, non solo, ma siano anche orgogliosi di farlo sapere. Esattamente come succede per il vino.
Intendiamoci, non è una questione di prestigio: l’incredibile balzo avanti compiuto dal vino italiano negli ultimi 20 anni dimostra senza possibilità di equivoco che la produzione agroalimentare può diventare remunerativa solo se conquista il mercato di qualità, e il mercato di qualità si conquista più facilmente se si riesce a essere presenti nei ristoranti di alto livello. È quella la vetrina più efficace e convincente, tanto più che è riservata a un pubblico che ha le disponibilità finanziarie per poter apprezzare un prodotto come l’extravergine di rango che non potrà mai essere a buon mercato. Il rischio è che gli olivicoltori si facciano tentare dalle scorciatoie: sbaglierebbero, se si affidassero a un distributore che li esoneri dai problemi della commercializzazione, oppure trovassero un importatore negli Stati Uniti disposto ad acquistare la maggior parte della produzione. In questo momento si metterebbero nelle loro mani perché la loro forza di contrattazione è troppo esigua.
Solo quando il loro extravergine sarà proposto dall’alta ristorazione e si troverà, a prezzi adeguati, nei negozi più prestigiosi, cioè solo quando il volano del mercato nazionale si sarà messo in moto, potranno accordarsi, se lo riterranno opportuno, con distributori, importatori e quant’altri sembrerà giusto contattare, perché saranno loro a poter dettare le condizioni. Attenzione, però: per affacciarsi con prezzi remunerativi alla ribalta della ristorazione di qualità e dei negozi di prestigio non basta un buon prodotto, neppure se è promosso da una denominazione d’origine che ne attesta la rinomanza. Occorre che la sua presentazione sia adeguata all’immagine che gli si vuol conferire: è indispensabile per esempio che l’olio sia proposto in bottiglia, sia perché in bottiglia l’acquirente ne può vedere il colore, sia perché la lattina di banda stagnata, anche se lo protegge meglio dalla luce che lo ossida, nell’immaginario collettivo dei consumatori è associata alla memoria degli oli scadenti che ha ospitato per troppi decenni.
Anche il Chianti, del resto, per entrare nel Gotha dei grandi rossi di statura internazionale ha dovuto sacrificare il proprio contenitore storico, che era il fiasco, troppo plebeo per un vino dalle ambizioni aristocratiche. È l’abito che fa il monaco, purtroppo (o per fortuna), nel commercio. Perciò la bottiglia per l’olio di qualità ha da essere ricca, l’etichetta di gusto raffinato, il packaging di classe. Questo discorso si regge naturalmente sul presupposto che il contenuto della bottiglia sia più che buono, eccezionale. Secondo me i produttori seneghesi hanno imboccato la strada giusta, ma sbaglierebbero se pensassero di essere arrivati: quando si parla di qualità non c’è mai un punto d’arrivo, si può sempre far meglio. Anche perché loro il salto di qualità lo hanno fatto finora agendo soprattutto nel frantoio: si sono resi conto cioè che l’eccellenza di un extravergine dipende dal grado di maturazione delle olive, dal tipo di raccolta, dal metodo usato per l’estrazione, dalla rapidità con cui vengono effettuate tutte queste operazioni, e si sono regolati di conseguenza. Ma adesso è nell’oliveto che bisogna intervenire.
In che modo? Sottoponendo ad analisi critica la tradizione, tanto per cominciare. Il rispetto del passato, è vero, nel frantoio è stato loro d’aiuto: l’essere rimasti fedeli al metodo tradizionale di estrazione a freddo, non aver adottato impianti a ciclo continuo, ha permesso con pochi interventi razionalizzatori di arrivare a produrre un olio più gradito dai consumatori. Io credo che anche nell’oliveto la tradizione non vada rivoluzionata, ma analizzata a fondo, questo sì.
Spiego: l’olio di Seneghe si ricava da un olivaggio, cioè dalla miscela di tre varietà diverse di olive: la bosana, l’oliamanna e la semidana. Perché non da una sola?
Io sono convinto che nessuno in realtà lo possa sapere esattamente perché la miscela è frutto della sedimentazione di esperienze generazionali delle cui motivazioni s’è persa memoria.
Sono convinto che sarebbe opportuno raccogliere le olive separatamente, varietà per varietà, e frangerle ciascuna per conto suo, in modo da poter verificare le caratteristiche degli oli monovarietali che se ne possono ricavare e analizzarne pregi e difetti: non è escluso che uno di essi risulti migliore di quello ricavato dall’olivaggio. In ogni caso, si potrà poi sempre decidere che la soluzione giusta è la mescolanza, ma a ragione veduta, con metodo scientifico, mediante sperimentazioni e assaggi comparati, e in questo modo stabilire le percentuali delle varie componenti in modo meno casuale. Io sarò fissato, ma anche qui ci vedo un parallelo con il mondo del vino. Continuo a riferirmi al Chianti. Venticinque anni fa, nel momento meno felice della sua lunga storia, ci si rese conto che era caduto così in basso anche perché era sbagliato miscelare uve bianche di trebbiano e malvasia con le uve rosse di sangiovese e canaiolo, perché questa operazione rendeva assai più fragile e meno longevo il vino. Non solo: si scoprì pure che quell’uvaggio non lo aveva suggerito Bettino Ricasoli, come si era creduto: il “barone di ferro” aveva sì consigliato una piccola aggiunta di uve bianche ma solo di malvasia. Il trebbiano era stato aggiunto successivamente perché era un’uva di maggior resa quantitativa ma anche di minor pregio.
Ecco che cosa intendo per analisi critica della tradizione. Dietro il nobile termine di tradizione, che esige il massimo rispetto, si nascondono talvolta consuetudini assai meno rispettabili, adottate quando si badava più a produrre molto che a produrre bene. Bisogna quindi depurare la pretesa tradizione di tutti gli elementi spuri, ma soprattutto bisogna rispettarne lo spirito autentico, e questo lo si può fare anche quando si adottano moderne tecnologie. È il caso, per esempio, di una soluzione propugnata da Veronelli, la frangitura delle olive snocciolate, per ricavare un olio privo di tannini troppo duri, oggi consentita dall’evoluzione delle macchine olearie. Erano già i testi più antichi, Catone, Varrone, Columella, a raccomandare di non spremere i noccioli dell’oliva. Sembra un paradosso, eppure è proprio così: la tradizione si può rispettare con maggior fedeltà utilizzando le tecnologie più avanzate.
Fortunatamente, questo è un momento di grazia per l’extravergine, e lo è anche nei mercati che storicamente si sono sempre basati sui grassi animali o che tra quelli vegetali non hanno mai privilegiato l’olio d’oliva.
È la qualità che conta e che si va cercando: perciò l’extravergine, ottenuto dalle olive con procedimenti unicamente fisici, anzi, meccanici, si è affermato come prodotto naturale e genuino, come caposaldo insostituibile della dieta mediterranea. Il problema però, per una produzione come quella del Montiferru, sconosciuta fuori dell’area di produzione, è questo: c’è ancora spazio per affermarsi sul mercato? Tutte le regioni italiane tranne due, Piemonte e Valle d’Aosta, producono olio da secoli, e almeno una decina ne producono quantità rilevanti.
Sul territorio italiano però gli ulivi sono diversissimi per clima, posizione geografica, altitudine, le cultivar sono parecchie centinaia, differenti le tecniche e i momenti di raccolta. Tutto questo si traduce in prodotti diversi, con note di gusto e di profumo altrettanto variegate. Nessuno che persegua il buon vivere e ponga il cibo e la civiltà della tavola fra i valori primari oggi può sottovalutare il piacere di distinguere fra olio e olio:
naso, lingua e palato si affinano nel cercare di percepire il fruttato e il mandorlato, il gusto pieno dell’oliva e l’amarognolo, il delizioso pizzicore dell’olio nuovo e il rotondo sapore di quello maturo. Lo spazio sul mercato, insomma, c’è e come, per un olio di incisiva personalità come quello di Seneghe. Anzi, io ho suggerito ai suoi produttori di moltiplicare le tipologie del loro extravergine, di segmentare la sua produzione a vari livelli di qualità, soprattutto se accetteranno il consiglio di sperimentare l’oleificazione separata delle loro cultivar. Se è vero, come io credo, che la qualità nasce dalla selezione, è solo in questo modo che si potrà arrivare a proporre un olio di vertice, di qualità assoluta e di prezzo adeguatamente elevato, che farà da rompighiaccio, anzi da locomotiva, trainando le bottiglie di produzione e di prezzo più corrente.
Non c’è niente di inedito, in questo: una cooperativa romagnola, la Cab di Brisighella, con il Nobil Drupa, un extravergine di eccezionale livello qualitativo ottenuto dalle olive di una rara varietà autoctona, la ghiacciola, ha ottenuto risultati d’immagine ma anche commerciali di assoluto rilievo. I seneghesi hanno da giocare una carta in più, rispetto alla cooperativa di Brisighella: l’effetto sorpresa di un olio che arriva da una zona rimasta a lungo isolata dai grandi traffici nazionali e internazionali. Non è detto però che l’isolamento abbia sempre un segno esclusivamente negativo. In Sardegna ha indubbiamente rallentato il processo di modernizzazione, ma ha altrettanto certamente contribuito a conservare, per esempio, i metodi tradizionali di estrazione a freddo dell’olio dalle olive, metodi che non sacrificano la qualità del prodotto finale sugli altari della quantità e della rapidità.
Ed è grazie a questo apparente conservatorismo se oggi l’olio di Seneghe arriva a noi dal passato remoto e paradossalmente non è soltanto al passo con i tempi ma è anzi uno dei più moderni e attuali, in perfetta sintonia con le più avanzate esigenze della scienza dietetica.
Sulle guide degli olii, epicentro dell’olivicoltura nell’Oristanese è considerata Cùglieri e di Seneghe non si fa neppure il nome. È vero che Seneghe e la Comunità montana del Montiferru sono minuziosamente descritte nella guida Le Città dell’olio edita dal Touring Club Italiano, però poi, nelle due pagine in cui questo libro elenca i frantoi
e gli imbottigliatori d’olio della Sardegna, non è segnalato neppure un marchio dell’Oristanese, che è sicuramente la più piccola zona olivicola dell’isola ma non è certo l’ultima per qualità.
L’olio di Seneghe, insomma, ha un grosso difetto: è assai meno conosciuto e apprezzato di quel che merita. Come mai? Manca di immagine, come dicono gli esperti di marketing.
A crearla potrebbe contribuire l’attribuzione della Dop, la Denominazione d’origine protetta, che la legherebbe più strettamente al territorio da cui scaturisce, e allo stesso tempo conferirebbe al territorio una maggiore visibilità. Sono molto stupito che nell’isola sia stata richiesta una sola denominazione: Sardegna.
Mi sembra troppo generica e, come sempre accade quando c’è da mettere insieme gli interessi contrastanti di varie zone, ci si mette più tempo a ottenerla. La Dop ha lo scopo di proteggere dalle contraffazioni e dalla concorrenza sleale i prodotti agroalimentari quando questi possiedono caratteristiche organolettiche di pregio che scaturiscono da una zona geografica di particolare elezione. Io credo che gli olivicoltori del Montiferru debbano far riconoscere in qualche modo la valenza della zona d’origine: il loro olio ha una personalità sua, ed è giusto che non venga confuso con gli altri, neppure con quelli degli altri territori sardi.
Luigi Veronelli ha lanciato la proposta delle De.Co.,
le denominazioni comunali per tutti i prodotti agroalimentari di pregio, i cosiddetti giacimenti gastronomici: denominazioni comunali che secondo lui, e credo abbia ragione, possono essere tutelate con maggior facilità e più inflessibile rigore grazie al controllo diretto che si può esercitare in loco.
Il Parlamento non ha ancora legiferato sulle De.Co., ma grazie alla Legge costituzionale n.3 del 18 ottobre 2001 e agli esempi di comuni importanti (per esempio Lecce e Castegnato che hanno deliberato ufficialmente sul tema e iniziato a certificare i propri giacimenti gastronomici) si è inaugurata un’opportunità che i seneghesi dovrebbero scandagliare con attenzione: se la nobiltà della loro zona d’origine fosse in qualche modo riconosciuta, il loro prodotto farebbe un passo avanti molto importante. C’è un episodio che spiega molte cose: la guida I ristoranti di Veronelli nell’edizione 2002 consigliava, a Oristano, un locale che utilizza un extravergine di Seneghe, ma lo segnalava come olio di Oristano. Nell’edizione 2003, poiché qualcuno aveva segnalato l’inesattezza, l’attribuzione a Oristano è scomparsa, ma non è stata sostituita da quella di
di Seneghe. Perché? Evidentemente perché il nome di quel comune non è abbastanza conosciuto. Il primo obiettivo che gli olivicoltori devono porsi, perciò, è che tutti i ristoranti di qualità della Sardegna utilizzino in cucina e servano in tavola l’olio di Seneghe, non solo, ma siano anche orgogliosi di farlo sapere. Esattamente come succede per il vino.
Intendiamoci, non è una questione di prestigio: l’incredibile balzo avanti compiuto dal vino italiano negli ultimi 20 anni dimostra senza possibilità di equivoco che la produzione agroalimentare può diventare remunerativa solo se conquista il mercato di qualità, e il mercato di qualità si conquista più facilmente se si riesce a essere presenti nei ristoranti di alto livello. È quella la vetrina più efficace e convincente, tanto più che è riservata a un pubblico che ha le disponibilità finanziarie per poter apprezzare un prodotto come l’extravergine di rango che non potrà mai essere a buon mercato. Il rischio è che gli olivicoltori si facciano tentare dalle scorciatoie: sbaglierebbero, se si affidassero a un distributore che li esoneri dai problemi della commercializzazione, oppure trovassero un importatore negli Stati Uniti disposto ad acquistare la maggior parte della produzione. In questo momento si metterebbero nelle loro mani perché la loro forza di contrattazione è troppo esigua.
Solo quando il loro extravergine sarà proposto dall’alta ristorazione e si troverà, a prezzi adeguati, nei negozi più prestigiosi, cioè solo quando il volano del mercato nazionale si sarà messo in moto, potranno accordarsi, se lo riterranno opportuno, con distributori, importatori e quant’altri sembrerà giusto contattare, perché saranno loro a poter dettare le condizioni. Attenzione, però: per affacciarsi con prezzi remunerativi alla ribalta della ristorazione di qualità e dei negozi di prestigio non basta un buon prodotto, neppure se è promosso da una denominazione d’origine che ne attesta la rinomanza. Occorre che la sua presentazione sia adeguata all’immagine che gli si vuol conferire: è indispensabile per esempio che l’olio sia proposto in bottiglia, sia perché in bottiglia l’acquirente ne può vedere il colore, sia perché la lattina di banda stagnata, anche se lo protegge meglio dalla luce che lo ossida, nell’immaginario collettivo dei consumatori è associata alla memoria degli oli scadenti che ha ospitato per troppi decenni.
Anche il Chianti, del resto, per entrare nel Gotha dei grandi rossi di statura internazionale ha dovuto sacrificare il proprio contenitore storico, che era il fiasco, troppo plebeo per un vino dalle ambizioni aristocratiche. È l’abito che fa il monaco, purtroppo (o per fortuna), nel commercio. Perciò la bottiglia per l’olio di qualità ha da essere ricca, l’etichetta di gusto raffinato, il packaging di classe. Questo discorso si regge naturalmente sul presupposto che il contenuto della bottiglia sia più che buono, eccezionale. Secondo me i produttori seneghesi hanno imboccato la strada giusta, ma sbaglierebbero se pensassero di essere arrivati: quando si parla di qualità non c’è mai un punto d’arrivo, si può sempre far meglio. Anche perché loro il salto di qualità lo hanno fatto finora agendo soprattutto nel frantoio: si sono resi conto cioè che l’eccellenza di un extravergine dipende dal grado di maturazione delle olive, dal tipo di raccolta, dal metodo usato per l’estrazione, dalla rapidità con cui vengono effettuate tutte queste operazioni, e si sono regolati di conseguenza. Ma adesso è nell’oliveto che bisogna intervenire.
In che modo? Sottoponendo ad analisi critica la tradizione, tanto per cominciare. Il rispetto del passato, è vero, nel frantoio è stato loro d’aiuto: l’essere rimasti fedeli al metodo tradizionale di estrazione a freddo, non aver adottato impianti a ciclo continuo, ha permesso con pochi interventi razionalizzatori di arrivare a produrre un olio più gradito dai consumatori. Io credo che anche nell’oliveto la tradizione non vada rivoluzionata, ma analizzata a fondo, questo sì.
Spiego: l’olio di Seneghe si ricava da un olivaggio, cioè dalla miscela di tre varietà diverse di olive: la bosana, l’oliamanna e la semidana. Perché non da una sola?
Io sono convinto che nessuno in realtà lo possa sapere esattamente perché la miscela è frutto della sedimentazione di esperienze generazionali delle cui motivazioni s’è persa memoria.
Sono convinto che sarebbe opportuno raccogliere le olive separatamente, varietà per varietà, e frangerle ciascuna per conto suo, in modo da poter verificare le caratteristiche degli oli monovarietali che se ne possono ricavare e analizzarne pregi e difetti: non è escluso che uno di essi risulti migliore di quello ricavato dall’olivaggio. In ogni caso, si potrà poi sempre decidere che la soluzione giusta è la mescolanza, ma a ragione veduta, con metodo scientifico, mediante sperimentazioni e assaggi comparati, e in questo modo stabilire le percentuali delle varie componenti in modo meno casuale. Io sarò fissato, ma anche qui ci vedo un parallelo con il mondo del vino. Continuo a riferirmi al Chianti. Venticinque anni fa, nel momento meno felice della sua lunga storia, ci si rese conto che era caduto così in basso anche perché era sbagliato miscelare uve bianche di trebbiano e malvasia con le uve rosse di sangiovese e canaiolo, perché questa operazione rendeva assai più fragile e meno longevo il vino. Non solo: si scoprì pure che quell’uvaggio non lo aveva suggerito Bettino Ricasoli, come si era creduto: il “barone di ferro” aveva sì consigliato una piccola aggiunta di uve bianche ma solo di malvasia. Il trebbiano era stato aggiunto successivamente perché era un’uva di maggior resa quantitativa ma anche di minor pregio.
Ecco che cosa intendo per analisi critica della tradizione. Dietro il nobile termine di tradizione, che esige il massimo rispetto, si nascondono talvolta consuetudini assai meno rispettabili, adottate quando si badava più a produrre molto che a produrre bene. Bisogna quindi depurare la pretesa tradizione di tutti gli elementi spuri, ma soprattutto bisogna rispettarne lo spirito autentico, e questo lo si può fare anche quando si adottano moderne tecnologie. È il caso, per esempio, di una soluzione propugnata da Veronelli, la frangitura delle olive snocciolate, per ricavare un olio privo di tannini troppo duri, oggi consentita dall’evoluzione delle macchine olearie. Erano già i testi più antichi, Catone, Varrone, Columella, a raccomandare di non spremere i noccioli dell’oliva. Sembra un paradosso, eppure è proprio così: la tradizione si può rispettare con maggior fedeltà utilizzando le tecnologie più avanzate.
Fortunatamente, questo è un momento di grazia per l’extravergine, e lo è anche nei mercati che storicamente si sono sempre basati sui grassi animali o che tra quelli vegetali non hanno mai privilegiato l’olio d’oliva.
È la qualità che conta e che si va cercando: perciò l’extravergine, ottenuto dalle olive con procedimenti unicamente fisici, anzi, meccanici, si è affermato come prodotto naturale e genuino, come caposaldo insostituibile della dieta mediterranea. Il problema però, per una produzione come quella del Montiferru, sconosciuta fuori dell’area di produzione, è questo: c’è ancora spazio per affermarsi sul mercato? Tutte le regioni italiane tranne due, Piemonte e Valle d’Aosta, producono olio da secoli, e almeno una decina ne producono quantità rilevanti.
Sul territorio italiano però gli ulivi sono diversissimi per clima, posizione geografica, altitudine, le cultivar sono parecchie centinaia, differenti le tecniche e i momenti di raccolta. Tutto questo si traduce in prodotti diversi, con note di gusto e di profumo altrettanto variegate. Nessuno che persegua il buon vivere e ponga il cibo e la civiltà della tavola fra i valori primari oggi può sottovalutare il piacere di distinguere fra olio e olio:
naso, lingua e palato si affinano nel cercare di percepire il fruttato e il mandorlato, il gusto pieno dell’oliva e l’amarognolo, il delizioso pizzicore dell’olio nuovo e il rotondo sapore di quello maturo. Lo spazio sul mercato, insomma, c’è e come, per un olio di incisiva personalità come quello di Seneghe. Anzi, io ho suggerito ai suoi produttori di moltiplicare le tipologie del loro extravergine, di segmentare la sua produzione a vari livelli di qualità, soprattutto se accetteranno il consiglio di sperimentare l’oleificazione separata delle loro cultivar. Se è vero, come io credo, che la qualità nasce dalla selezione, è solo in questo modo che si potrà arrivare a proporre un olio di vertice, di qualità assoluta e di prezzo adeguatamente elevato, che farà da rompighiaccio, anzi da locomotiva, trainando le bottiglie di produzione e di prezzo più corrente.
Non c’è niente di inedito, in questo: una cooperativa romagnola, la Cab di Brisighella, con il Nobil Drupa, un extravergine di eccezionale livello qualitativo ottenuto dalle olive di una rara varietà autoctona, la ghiacciola, ha ottenuto risultati d’immagine ma anche commerciali di assoluto rilievo. I seneghesi hanno da giocare una carta in più, rispetto alla cooperativa di Brisighella: l’effetto sorpresa di un olio che arriva da una zona rimasta a lungo isolata dai grandi traffici nazionali e internazionali. Non è detto però che l’isolamento abbia sempre un segno esclusivamente negativo. In Sardegna ha indubbiamente rallentato il processo di modernizzazione, ma ha altrettanto certamente contribuito a conservare, per esempio, i metodi tradizionali di estrazione a freddo dell’olio dalle olive, metodi che non sacrificano la qualità del prodotto finale sugli altari della quantità e della rapidità.
Ed è grazie a questo apparente conservatorismo se oggi l’olio di Seneghe arriva a noi dal passato remoto e paradossalmente non è soltanto al passo con i tempi ma è anzi uno dei più moderni e attuali, in perfetta sintonia con le più avanzate esigenze della scienza dietetica.