Scompaiono finalmente i “modelli F”, forse adesso si saprà realmente quanto olio extravergine è prodotto in Italia. I “modelli F”, per i non addetti ai lavori, sono quelle famose “bollette” compilate dal frantoiano per documentare la quantità d’olio d’oliva prodotto, necessarie per definire l’entità degli aiuti comunitari all’olivicoltore.
Senza nessuna possibilità reale di verifica. A mio parere, questa procedura ha determinato l’attuale stato di difficoltà in cui giace l’olivicoltura italiana; infatti sono stati elargiti contributi in funzione della complessiva e indistinta produzione d’olio d’oliva, riducendo la differenza di quotazione di mercato tra olio lampante ed extravergine a solo un euro.
I nostri produttori, in special modo quelli del sud (il 70% dell’olio italiano) non riuscendo nemmeno a coprire i costi della raccolta, sono costretti a lasciar cadere le olive a terra, con la conseguente produzione d’olio lampante in alcune aree superiore al 60% del totale. Questa enorme quantità d’olio lampante - non potendo essere consumata direttamente - è acquistata dall’industria che, attraverso processi chimici di deacidificazione, lo rimette sul mercato. Ancor oggi gli organi statali di controllo non hanno legalmente la possibilità di verificare se un’extravergine raggiunga i valori che lo contraddistinguono in maniera naturale oppure no.
Il costo di un extravergine è invariato da 20 anni, e di questo siamo un po’ tutti responsabili: l’olio d’oliva è “un bene sociale” e - anche per il notevole consumo che ne facciamo - non può costare molto. Infatti quando acquistiamo un litro d’olio extravergine a 4 euro non ci rendiamo conto che, per il cambio d’olio al motore della nostra auto, arriviamo anche a spenderne 8 o 9 al litro per un prodotto ricavato dagli scarti del petrolio. Con la riforma attuale, fino al 2013 ogni produttore riceverà contributi non più legati alla quantità, ma riconosciuti come integrazione fissa al reddito agricolo, calcolato dalla media delle produzioni delle annate dal 1999 al 2003.
Un nefasto effetto di tale novità potrebbe essere il progressivo abbandono degli uliveti: si rende necessario l’intervento dello stato italiano (come la riforma comunitaria per altro prevede) ad innalzare la quota d’aiuti fissi dal 60% al 100% giustificandone le motivazioni.
Se il Ministro Alemanno stabilisse che il restante 40% di contributi richiesti dall’Italia fossero elargiti esclusivamente a vantaggio della produzione d’olio extravergine, identificandolo tutto come IGP e DOP (oggi solo il 4%), l’olivicoltore non perderebbe gli aiuti legati alla produzione delle annate precedenti, ma sarebbe però incentivato ad orientarsi ad una produzione di qualità.
Si potrebbe così determinare a quanto ammonta realmente la produzione d’olio extravergine, dando un adeguato sostegno ad un prodotto veramente italiano, ambito in tutto il mondo. In proposito è doveroso per il legislatore modificare l’attuale normativa che permette di denominare “italiano” un olio con un 25% di origine estera. Nel fare ciò non si recherebbe danno diretto all’industria che basa il suo mercato sul marchio che lo contraddistingue non certo sul luogo di provenienza delle olive o sull’andamento dell’annata, visto che questi dati non sono richiesti né dalla legge, né dal consumatore finale, altrimenti sarebbero riportati in etichetta.
La creazione di un mercato alternativo attraverso l’identificazione di un nuovo prodotto, con un gusto legato alle cultivar autoctone e alla terra d’origine porterebbe all’identificazione di migliaia di piccoli produttori oggi sconosciuti al mercato e di conseguenza costretti a vivere di sovvenzioni non del reddito della propria azienda.
Fino a quando non sarà promulgata una regolamentazione che esiga la tracciabilità di filiera - come avviene per molti altri prodotti agroalimentari italiani - per il vero olio Made in Italy non ci sarà futuro.
Facciamo appello al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi perché intervenga presso il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali sollecitando provvedimenti in questa direzione, perché sia possibile essere orgogliosi del nostro olio d’oliva.
Senza nessuna possibilità reale di verifica. A mio parere, questa procedura ha determinato l’attuale stato di difficoltà in cui giace l’olivicoltura italiana; infatti sono stati elargiti contributi in funzione della complessiva e indistinta produzione d’olio d’oliva, riducendo la differenza di quotazione di mercato tra olio lampante ed extravergine a solo un euro.
I nostri produttori, in special modo quelli del sud (il 70% dell’olio italiano) non riuscendo nemmeno a coprire i costi della raccolta, sono costretti a lasciar cadere le olive a terra, con la conseguente produzione d’olio lampante in alcune aree superiore al 60% del totale. Questa enorme quantità d’olio lampante - non potendo essere consumata direttamente - è acquistata dall’industria che, attraverso processi chimici di deacidificazione, lo rimette sul mercato. Ancor oggi gli organi statali di controllo non hanno legalmente la possibilità di verificare se un’extravergine raggiunga i valori che lo contraddistinguono in maniera naturale oppure no.
Il costo di un extravergine è invariato da 20 anni, e di questo siamo un po’ tutti responsabili: l’olio d’oliva è “un bene sociale” e - anche per il notevole consumo che ne facciamo - non può costare molto. Infatti quando acquistiamo un litro d’olio extravergine a 4 euro non ci rendiamo conto che, per il cambio d’olio al motore della nostra auto, arriviamo anche a spenderne 8 o 9 al litro per un prodotto ricavato dagli scarti del petrolio. Con la riforma attuale, fino al 2013 ogni produttore riceverà contributi non più legati alla quantità, ma riconosciuti come integrazione fissa al reddito agricolo, calcolato dalla media delle produzioni delle annate dal 1999 al 2003.
Un nefasto effetto di tale novità potrebbe essere il progressivo abbandono degli uliveti: si rende necessario l’intervento dello stato italiano (come la riforma comunitaria per altro prevede) ad innalzare la quota d’aiuti fissi dal 60% al 100% giustificandone le motivazioni.
Se il Ministro Alemanno stabilisse che il restante 40% di contributi richiesti dall’Italia fossero elargiti esclusivamente a vantaggio della produzione d’olio extravergine, identificandolo tutto come IGP e DOP (oggi solo il 4%), l’olivicoltore non perderebbe gli aiuti legati alla produzione delle annate precedenti, ma sarebbe però incentivato ad orientarsi ad una produzione di qualità.
Si potrebbe così determinare a quanto ammonta realmente la produzione d’olio extravergine, dando un adeguato sostegno ad un prodotto veramente italiano, ambito in tutto il mondo. In proposito è doveroso per il legislatore modificare l’attuale normativa che permette di denominare “italiano” un olio con un 25% di origine estera. Nel fare ciò non si recherebbe danno diretto all’industria che basa il suo mercato sul marchio che lo contraddistingue non certo sul luogo di provenienza delle olive o sull’andamento dell’annata, visto che questi dati non sono richiesti né dalla legge, né dal consumatore finale, altrimenti sarebbero riportati in etichetta.
La creazione di un mercato alternativo attraverso l’identificazione di un nuovo prodotto, con un gusto legato alle cultivar autoctone e alla terra d’origine porterebbe all’identificazione di migliaia di piccoli produttori oggi sconosciuti al mercato e di conseguenza costretti a vivere di sovvenzioni non del reddito della propria azienda.
Fino a quando non sarà promulgata una regolamentazione che esiga la tracciabilità di filiera - come avviene per molti altri prodotti agroalimentari italiani - per il vero olio Made in Italy non ci sarà futuro.
Facciamo appello al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi perché intervenga presso il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali sollecitando provvedimenti in questa direzione, perché sia possibile essere orgogliosi del nostro olio d’oliva.